La conquista romana ha diffuso la conoscenza del latino come lingua veicolare; tutti hanno continuato a parlare le lingue di prima, ma i più istruiti e i più viaggiatori hanno imparato la medesima lingua internazionale.
Il panorama linguistico si è articolato in tre tipi di situazioni sociolinguistiche:
a) nelle città di nuova fondazione predominava l’uso del latino (sia perché lingua della maggioranza dei Coloni sia perché lingua veicolare di comunicazione tra immigrati le cui lingue materne – greco, aramaico &c. – non sarebbero state reciprocamente intercomprensibili)
b) nelle città sviluppatesi dai principali insediamenti preromani, accanto al latino come lingua alta (di prestigio) o del commercio, rimaneva normalmente usata la lingua prelatina locale;
c) nei centri minori, nelle campagne, nelle montagne e nelle aree isolate persisteva quasi incontrastata la lingua preromana.
La Persia Sāsānide ha rappresentato probabilmente il primo caso – ancora un ‟prototipo” sperimentale – di superamento delle compagini politiche all’epoca più efficienti, gli Imperi delle Steppe (a loro volta creazioni irāniche
di molti secoli prima), che tutti cercavano di imitare.
Quando il potenziale di violenza attuabile da parte delle compagini politiche lo ha permesso (in risposta al perfezionamento del modello degli Imperi delle Steppe), gli Imperi tardoantichi hanno cominciato a tendere alla formazione di un’unica etnia e all’uso di una sola lingua, secondo il modello della Persia Sāsānide (nella quale cessa la documentazione di molti acroletti medioirānici e non irānici e anche non indoeuropei, sostituiti dal mediopersiano).
Più tardi, dove c’è stata una ʼIslāmizzazione la lingua pre-ʼislāmica è (progressivamente) scomparsa o si è notevolmente ridotta nell’uso, anche nei casi in cui si era imposta con gli Imperi Tardoantichi, come il greco in Anatolia (accanto al quale sussistevano le lingue pregreche fino a Teodosio) o il latino in Africa Settentrionale (ancora all’epoca di S. Agostino non era lingua di socializzazione primaria).
Al contrario, dove non è avvenuta una conversione ‟religiosa” non si constatano sostituzioni di lingua: gli Unni, nonostante praticassero politiche più assimilatrici che gli Arabi (nei primi cinque secoli dalla Hijra / Egira), non hanno potuto imporre la propria lingua altaica in nessun luogo fuorché nell’unica regione (in precedenza poco abitata) in cui i loro discendenti, i Bulgari del(la) Volga, si sono ʼislāmizzati.
Questi eventi sono stati il principale fattore di mutamento etnico- -linguistico nella Storia eurasiatica. È evidente che gli stessi processi che hanno caratterizzato l’Impero Sāsānide prima e il Califfato ʼislāmico poi devono aver contribuito al fenomeno storico conosciuto come Cristianizzazione dell’Europa.
Il Cristianesimo rappresenta la versione europea del processo di trasformazione delle compagini politiche polietniche antiche in compagini etnopolitiche medioevali – un rafforzamento violentemente centralizzatore (nei limiti in cui le tecniche dell’epoca permettevano di centralizzare, quindi pochissimo rispetto a oggi) e diretto all’obiettivo più tardo della nascita dello Stato.
Il primo esperimento in forme cristiane è stato l’Armenia, significativamente aperta sia a Roma che alla Persia Sāsānide. Quando si sono determinate le condizioni per trasformare l’Impero Romano plurietnico in Impero etno-politico ‟unitario” (nei limiti del possibile), tale Impero ‟unitario” è stato – per varie cause storiche – Cristiano (sarebbe potuto essere Miθraico).
Costantino I ha cercato di imitare i Parti con l’Editto di Tolleranza; Teodosio ha imitato e superato la Persia (e l’Armenia). L’Impero tardoantico si è completamente rimodellato sull’esempio della Persia Sāsānide (che da
allora per secoli ha tentato di conquistare, come mostra, fra l’altro, la scelta di Bisanzio anziché Alessandria come nuova Capitale, collocata esattamente nel centro del progettato Impero dalla Britannia all’India).
Si è trasformato in un Impero ‟nazionale” dell’etnia imperiale, cristiana, l’Impero Bizantino, vera continuazione potenziata dell’Impero Romano, le cui due principali lingue, latino e greco, sono assimilabili a un unico diasistema in quanto si avvicinano al reciproco isomorfismo.
Anche altre lingue potevano sopravvivere (anzi dominare, a loro volta uniche) nei regni satelliti: Armenia, Slavi &c. (tale è rimasta la politica bizantina).
Per le cause sociali ed economiche richiamate, la Cristianizzazione ufficiale, in Occidente, ha comportato che la cultura urbana – particolarmente delle città di fondazione romana e di popolazione italica od orientale – abbia cominciato a diffondersi nelle campagne, a partire dalle uīllăe della nobiltà fondiaria, mentre la cultura preromana, inclusa la lingua, è stata sempre più identificata con la rusticità – il Paganesimo, appunto – e ha finito per divenire addirittura oggetto di persecuzione.
La fase tardoantica / altomedioevale dell’Impero e poi dei Regni Romano-Germanici ha imposto la cultura centrale e con essa la lingua veicolare alle campagne (i pāgī); solo pochi ‟pagani” e le comunità più isolate hanno conservato la lingua (e, in forme alquante deteriorate, la cultura) preromana.
Il latino letterario e scritto, i latini volgari (che anche nella Teoria Tradizionale vanno considerate già lingue romanze allo stadio di evoluzione fonistorica dell’attuale romancio) e la versione intermedia costituita dal latino parlato interregionale (diverso a seconda della Dĭŏecēsĭs: Spagna, Gallia &c.) hanno costituito l’alternativa non pagana a tutte le lingue preromane.
La popolazione è tuttavia rimasta geneticamente inalterata; la sostituzione è avvenuta soprattutto a livello religioso e linguistico e comunque solo superficialmente: dal punto di vista religioso, i culti sono rimasti gli stessi, con cambiamento dei soli nomi delle divinità (sostituite da manifestazioni del Monoteismo o, spesso, da figure di Santi se non addirittura ‟trasformate” in questi ultimi); dal punto di vista linguistico, i significati sono rimasti invariati, mentre i significanti prelatini sono stati sostituiti dai corrispondenti latini / romanzi, con ricorso (che è lecito immaginare ampio) alle procedure di calco. Solo i Baschi hanno conservato fino al Basso Medioevo, cioè definitivamente, la lingua preromana.
I Celti Continentali, in un contesto in cui facevano parte per intero dell’Impero Romano nei secoli di diffusione del Cristianesimo hanno cessato di esistere come comunità linguistica indipendente e quindi come vero popolo.
Se, per una combinazione storica, l’Ĭmpĕrĭŭm Găllĭārŭm si fosse staccato permanentemente dall’Impero Romano, sarebbe stato possibile che accogliesse il Cristianesimo in forme sì analoghe, ma legandolo linguisticamente al tardogallico anziché al tardolatino (così come gli Armeni, gli Slavi &c. alle proprie lingue anziché al siriaco o al greco); tutta la Celticità Continentale, pur divenendo pienamente cristiana in senso medioevale avrebbe però avuto Scritture, liturgia, lingua ufficiale e coscienza etnica galliche anziché latine.
Non è Cesare, ma Teodosio che ha dato il vero effettivo avvio alla cancellazione della Celticità Continentale. La causa remota della snazionalizzazione linguistica dei Celti Continentali è stata anzitutto la superiore potenza centralizzatrice di Roma in quel momento storico (mentre non ha rilevanza che fosse così all’epoca di Cesare), non tanto per casualità tattico-militare, ma perché l’Impero più esteso (quello Romano) era troppo più vantaggioso che quello meno esteso (l’Ĭmpĕrĭŭm Găllĭārŭm).
L’estensione territoriale, la popolazione, le risorse geoeconomiche, finanziarie, tecnologiche e militari erano tutte maggiori nel caso dell’Impero Romano (decurtato dell’Ĭmpĕrĭŭm Găllĭārŭm) che nel caso dell’Ĭmpĕrĭŭm Găllĭārŭm e quindi a maggior ragione erano maggiori e perciò più attraenti come obiettivo nel caso dell’Impero Romano che avesse pure riconquistato l’Ĭmpĕrĭŭm Găllĭārŭm.
In altri termini: c’erano due progetti geopolitici concorrenti, l’Impero Romano (dall’Atlantico all’Eufrate) e l’Ĭmpĕrĭŭm Găllĭārŭm (soltanto dall’Atlantico alle Alpi). Il più allettante era il primo, sia perché più ambizioso, sia perché in posizione di vantaggio fin dal principio. Le élites hanno dato inizio all’opzione per conto di tutti i Celti.
continentali; si sono romanizzate (quasi tutte, con eccezione dei gruppi più prestigiosi) abbastanza presto e spontaneamente, mentre la maggioranza dei contadini gallici e britannici non aveva una coscienza etnica ad ampio raggio come le élites e quindi potrebbe non essersi quasi avveduta della sostituzione. Il processo di Cristianizzazione / Romanizzazione delle campagne ha richiesto molti secoli, fino a tutto l’Alto Medioevo e oltre; molte aree devono essere rimaste ‟pagane” (quindi, tra l’altro, linguisticamente anche preromane) fino a epoca relativamente recente (in qualche caso persino nei primi secoli del II. millennio.
Alcune di tali aree inizialmente non raggiunte dalla romanizzazione delle campagne hanno visto l’introduzione del Cristianesimo, con tutte le conseguenze politiche ed etniche che ciò comportava, a opera di élites di lingua non latina – re germanici (Franchi, Alemanni) o famiglie nobili britanniche.
Un articolo di Guido Borghi ed Emanuele Rizzardi
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