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Il Piemonte in guerra fra Romani e Longobardi (569-599)

  • 4 ore fa
  • Tempo di lettura: 6 min


Introduzione:


Quando ho deciso di esplorare il periodo "bizantino" in Piemonte, sapevo di entrare in un’epoca poco chiara, piena di ombre e di dubbi.

È un tempo di transizione che non ha lasciato grandi cronache o monumenti spettacolari, ma che è stato determinante per la costruzione del paesaggio storico e politico della regione. Eppure, nonostante la sua importanza, se ne parla poco.

Mi sono immerso in testi, mappe antiche e fonti poco conosciute, come l’Anonimo Ravennate, la Tabula Peutingeriana, l’Itinerarium Antonini e altri scritti geografici di epoca tardo-romana e altomedievale. Da subito, mi sono trovato di fronte a un puzzle: nomi di città scomparse, itinerari stradali che non coincidono, confini che cambiano, e una miriade di ipotesi spesso contrastanti. Ma lentamente, grazie ai preziosi lavori di storici recenti, qualcosa ho potuto ricostruire:


L’Eredità Romana e l’Arrivo dei Romani d'Oriente


Il cuore della questione è questo: dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, il Piemonte non diventò subito un feudo longobardo. Anzi, per un certo tempo, i Romani d'Oriente riuscirono a mantenere un controllo parziale, specie su alcune valli e sulle città principali. Ma era un controllo fragile, costretto a convivere con poteri locali, aristocrazie terriere e l’avanzata inesorabile dei Longobardi, che a partire dal 568 iniziarono a occupare le pianure e le vallate alpine.

I Romani d'Oriente cercarono di difendere quello che restava dell'antica amministrazione imperiale, mantenendo fortificazioni, stazioni militari e presidi strategici nei punti nevralgici del territorio. Alcune città come Vercelli, Asti e forse anche Alba conservarono per un certo tempo una struttura di tipo romano, ma in condizioni ormai precarie.


La Rete Viaria come Chiave di Lettura


Una delle prime cose da notare è quanto fossero importanti le strade. Non solo come vie di comunicazione, ma anche come veri e propri strumenti di potere. Le strade romane – la via Fulvia, la Postumia, i collegamenti tra Augusta Taurinorum (Torino), Hasta (Asti), Pollentia (Pollenzo), Alba Pompeia (Alba) – erano ancora utilizzate, anche se in parte modificate. I Longobardi e i Romani d'Oriente combattevano anche per controllare questi snodi viari.

Per esempio, la via che da Acqui Terme arrivava ad Alba Pompeia, e poi si dirigeva verso Pollentia, era strategica perché collegava il litorale ligure con la pianura padana. Alcuni tratti erano stati fortificati già nel tardoantico. Più a nord, la via della Val di Susa – che passava per Fines (Malano), Segusio (Susa), Martis (Oulx) fino al Monginevro – rappresentava un corridoio essenziale verso la Gallia. Lì, i Romani cercarono di resistere più a lungo, prima che i Longobardi ne prendessero il controllo definitivo.

Altri tracciati secondari si incrociavano a questi assi principali. Alcuni venivano usati come vie di fuga, altri per il commercio clandestino, altri ancora erano itinerari religiosi, usati dai pellegrini e dai monaci per spostarsi da un’abbazia all’altra. L’esistenza di più percorsi alternativi dimostra una rete viaria viva e adattabile.


Città, Campagna e Trasformazioni Sociali


Mi ha sorpreso scoprire quanto fosse dinamico il rapporto tra città e campagna. Le città non scomparvero del tutto, ma si ridimensionarono, perdendo peso amministrativo. Il potere si spostava nei castelli, nei villaggi fortificati, nelle pievi e nei monasteri. Le campagne si riorganizzavano attorno a nuovi centri di potere, molti dei quali oggi non esistono più, se non nei toponimi: Ororiatis, Polentino, Agodano, Diovia. Alcuni sono identificabili (come Capris, oggi Caprie), altri rimangono misteriosi.

La campagna diventava il nuovo fulcro della vita sociale ed economica. Con la decadenza delle città romane, le élite locali si spostavano nei propri fundi, trasformandoli in centri di potere autonomi. Qui sorgevano ville fortificate, piccole chiese, centri di raccolta delle decime. A poco a poco, da questi nuclei rurali sarebbero nati i borghi medievali.


Le Chiuse Alpine: Geografia e Difesa


Mi ha affascinato molto la storia delle “chiuse” alpine, soprattutto quelle tra Caprie e il Monte Pirchiriano, l’attuale Chiusa di San Michele. Luoghi strategici, passaggi obbligati tra la pianura e le Alpi, che in epoca longobarda furono fortificati o riutilizzati. Si trattava di vere e proprie barriere militari, ma anche dogane, dove si raccoglievano i tributi sul traffico (la “Quadragesima Galliarum”, una sorta di pedaggio). Ecco allora che un semplice ponte, una gola tra le montagne o un crinale diventano pezzi chiave nella storia geopolitica del Piemonte.

Le chiuse erano spesso integrate da torri di guardia, piccoli presidi militari e postazioni mobili. Alcune avevano anche funzioni religiose: chiese intitolate a santi militari come Michele o Maurizio, poste a guardia dei confini spirituali e fisici del regno.


Castelli e Presidi: il Caso di Diobia


Anche i castelli hanno avuto un ruolo fondamentale. Uno su tutti: il castellum Diobia, nella Vallis Bardonisca, che oggi corrisponde alla zona di Bardonecchia. È citato in un diploma dell’845, legato all’abbazia della Novalesa. Questo castello era una delle difese più occidentali, situato in un’area di confine contesa tra Longobardi, Franchi e Burgundi. Non solo: viene anche menzionata una certa “libertas” degli abitanti di quella valle, che faceva pensare a un’origine militare, forse un presidio di soldati “arimanni”, liberi ma fedeli al re.

Questi arimanni erano uomini liberi obbligati al servizio militare. Erano l’equivalente dei soldati di leva, ma godevano di privilegi speciali, come l’esenzione da alcuni tributi. Il loro insediamento in aree di confine dimostra quanto fosse forte l’attenzione del potere centrale per la difesa del territorio.


Vita Quotidiana, Tombe e Identità


Mi sono chiesto più volte come vivesse davvero la gente comune in questo periodo. Le necropoli scavate a Testona, Carignano, Almese, e i resti di capanne o case in legno, ci parlano di un mondo rurale organizzato, dove le popolazioni locali – in parte romanizzate, in parte germaniche – convivevano, si fondevano, si adattavano. Alcuni nomi (come Lombardore) ci ricordano ancora oggi queste radici longobarde. Le tombe a inumazione con corredi militari ci dicono che l’identità guerriera era forte, ma c’era anche una forte componente femminile, con gioielli, pettini, e oggetti quotidiani.

Non si trattava solo di differenze culturali, ma anche di un processo di ibridazione: famiglie miste, pratiche religiose sovrapposte, usanze che si fondono. Le tombe con doppia sepoltura, o con oggetti sia romani che germanici, parlano di una società in cambiamento.


Chiesa e Politica: Le Abbazie come Potere


Le istituzioni religiose giocavano un doppio ruolo. Da un lato evangelizzavano, dall’altro erano vere e proprie strutture di potere. Monasteri come San Dalmazzo di Pedona, abbazie come la Novalesa o la pieve di Avigliana, non erano solo centri spirituali: raccoglievano tributi, amministravano terre, facevano politica. I re longobardi ne favorivano alcuni per rafforzare il proprio controllo. I Romani d'Oriente, quando potevano, facevano altrettanto. E intorno a questi centri crescevano villaggi, mercati, e nuove forme di organizzazione sociale.

Le chiese diventavano anche luoghi di rifugio e documentazione. Qui si conservavano contratti, atti di donazione, testamenti. In mancanza di un’amministrazione pubblica stabile, la Chiesa era spesso l’unica autorità riconosciuta.


Ducati, Comitati e Marche: il Puzzle Politico


Un’altra cosa che mi ha colpito è quanto mutava rapidamente la geografia politica. I ducati longobardi – come quelli di Torino, Ivrea, Asti – erano veri e propri distretti, ognuno con le sue regole, le sue élite locali, e spesso in competizione tra loro. I confini non erano mai netti: una valle poteva passare di mano in mano più volte in pochi anni. La stessa valle di Susa, per esempio, fu ceduta nel 575 dai Longobardi al re burgundo Guntramo, per poi essere ripresa più tardi.

Alla lunga, queste trasformazioni territoriali portarono alla nascita dei comitati e delle marche carolingie, che ereditarono molte strutture longobarde. Così nacquero, ad esempio, il comitato di Auriate e quello di Bredolo. Spesso questi territori coincidevano con le vecchie circoscrizioni romane, ma il loro significato era diverso: non erano più province, ma zone gestite da signori locali, spesso legati all’aristocrazia franca. La continuità tra tardo impero, Longobardi e Carolingi è più forte di quanto pensassi all’inizio.


Conclusione: quanto e come resistono i Romani?


Mentre già nel 570 veniva presa Torino e quasi tutto il Piemonte, si veniva a creare una sacca di resistenza nelle Alpi, totalmente isolata e comandata dal magister militum Sisige (detto anche Sisinnio) che riuscì a tenere un territorio tutto sommato vasto, composto da alcune fortezze e villaggi montani incentrati attorno alla città di Susa e all’omonima valle, al tempo di dimensioni e importanza non trascurabili perché principale via di comunicazione fra l’Italia, e la Gallia e forse anche una parte della

Sisige era un capo goto che ai tempi del ritorno delle truppe imperiali, temendo di diventare facile preda dei Franchi, aveva giurato fedeltà all’imperatore, mantenendo il suo potere e aveva rinnovato il suo voto durante il primo assalto dei Longobardi.

Riuscì a mantenere il controllo di Susa almeno fino al 575.

La riva destra del Po e il distretto Turriense resistettero più a lungo attorno ai punti nevralgici di Alba, Tortona, Asti e Alessandria. Queste ultima caddero grossomodo nel 588, mentre Alba resistette fino al 590 e Tortona forse al 599


Un articolo di Emanuele Rizzardi


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