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Perché le lingue antiche sono complicatissime?

Quando studiamo una lingua che per semplicità di comunicazione chiameremo "antica", abbiamo sempre la percezione che sia eccessivamente complicata... sarà vero?

Un bel respiro e iniziamo... allora, la risposta è "SI", le lingue antiche sono estremamente più difficili da usare di quelle moderne, vale per lingue che ora non si usano più dette "estinte" (sumero, babilonese, egizio antico), come per lingue ancora in uso ma che per quanto ne sappiamo non hanno avuto enormi evoluzioni nel tempo (lingue siouan).


Vero che la difficoltà di una lingua cambia a seconda dell'origine del parlante: per un francese del 1000 era molto più facile capire un tedesco del 1000 che un greco. Tuttavia, alcune lingue hanno oggettivamente delle costruzioni più intricate e difficili da digerire per un parlante moderno, rispetto ad altre.


Per dare una spiegazione dobbiamo fare un balzo indietro di qualche milione di anni.


I nostri antenati del tempo, proprio come noi, erano mossi dall'esigenza di comunicare, ma potevano farlo solo con versi e suoni non molto articolati perchè la loro struttura fisica non gli permetteva di usare un linguaggio complesso. L'insieme di comunicazione verbale non ancora definibile "lingua" viene chiamata "protolingua" o "protolinguaggio".


Poi, in un periodo vicino ai 200.000-250.000 anni fa, accade la magia. L'uomo inizia a parlare e di conseguenza a sviluppare una o più lingue. (origine delle lingue QUI)

Ma alla fine, che cos'è una lingua? Di fatto è la progressiva canonizzazione dei versi spontanei dell’uomo (che a loro volta erano ereditati dai suoi Predecessori) in modo da soddisfare tutte le esigenze espressive, quindi una complicazione immensa.


Di fatto vengono create espressioni e parole differenti per ogni singola variabile umana. Ogni popolazione con lingue diverse interpreta il mondo in modi diversi...


L'uomo però è naturalmente predisposto verso la semplificazione al fine di farsi intendere da un maggior numero di interlocutori possibili; essa avviene in due modi: diminuendo lo sforzo di parlare, ma anche diminuendo lo sforzo di capire.

Diminuire lo sforzo di parlare porterebbe a parole sempre più corte e facili da dire; per facilitare la comprensione bisogna che invece le parole siano molto distinte fra loro. Le due tendenze sono quindi in un certo senso opposte e in ogni caso l'equilibrio fra loro è sempre precario.


Per farla semplice, le lingue "originarie", nascono complicatissime ma nel corso di decine di migliaia di anni vengono semplificate riducendo il numero di parole e la lunghezza delle parole stesse... una cosa che a tratti ricorda il romanzo "1984"!


Questo processo è talmente potente che porta, alla fine, a creare nuove lingue, che a loro volta vengono influenzate dalle altre lingue con cui vengono a contatto e così via... roba da mal di testa.


Ma allora, perché alcune lingue, come l'Italiano, sono diventate molto più semplici delle loro lingue originarie, mentre altre no?


Per due motivi: il numero dei parlanti e la possibilità di contatto.


Più i parlanti sono numerosi, più la lingua viene usata, più si tende a semplificarla... nelle comunità isolate questo fenomeno è molto ridotto, perciò assistiamo alla permanenza di stutture arcaiche, magari di uso ormai obsoleto.

Con i contatti funziona allo stesso modo... più una lingua entra in contatto con altre lingue, più viene mischiata e contaminata quindi... semplificata!


E la scrittura influenza la lingua? Ehm, no! Perlomeno non dal punto di vista squisitamente linguistico (se parliamo di politica, andiamo verso altri lidi).


La cronologia della lingua e quella della scrittura sono molto sfasate: la lingua da più di 200.000 anni, la scrittura – appunto solo dove c’era e per quei pochi che la sapevano usare (al massimo il 2% della popolazione, all’inizio solo in Egitto e Mesopotamia) – da soli più o meno 6.000 e fino a circa 4000 anni fa quasi soltanto in forme pittografiche o logografiche, che quindi non risentivano della concreta forma e sostanza fonologica delle parole.


Un articolo di Emanuele Rizzardi e Guido Borghi


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