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Origine del maschile/femminile nell'indoeuropeo antico: perché è errato usare asterischi e schwa

Aggiornamento: 26 nov 2023


Esiste una tendenza nata negli ultimi anni che si propone di inserire asterischi e schwa

nel linguaggio scritto, con lo scopo apparentemente nobile di essere inclusivi e di non offendere nessuno.

Questa tendenza, che sta in un certo qual modo prendendo piede e che si suppone voglia combattere una cultura linguistica maschilista, è fondamentalmente errata dal punto di vista squisitamente della lingua, e ora andiamo ad analizzare il perchè anche dal punto di vista storico:


L’errore sta nel presupposto in sè, ed è un errore... maschilista, perché consiste nell’accettare l’idea – appunto erronea – che il genere grammaticale maschile sia davvero maschile.

Nel Mondo ci sono lingue che non hanno genere grammaticale (fra queste anche le lingue a classi ossia che hanno numerose classi lessicali fra le quali anche una femminile, che non influenza gli accordi grammaticali); le lingue che hanno un genere si riconoscono dal fatto che modificano l’accordo dell’aggettivo o addirittura del verbo a seconda del genere del sostantivo.

Fra le lingue che hanno generi grammaticali distinti, la maggior parte hanno un’opposizione fra animato e inanimato (da notare che lo stesso referente può assumere l’uno o l’altro a seconda di come è visto, per esempio l’acqua se vista come elemento o come principio attivo). Il femminile opposto al maschile c’è solo in lingue indoeuropee e semitiche e in dravidico; in semitico e dravidico non c’è l’inanimato, mentre nella maggior parte delle lingue indoeuropee ci sono i tre generi (come in latino e in tedesco; in armeno non ci sono generi).

Se l’indoeuropeo preistorico avesse il femminile è molto controverso; di certo aveva l’inanimato (all’origine del neutro) e l’animato (all’origine del genere comune). Nelle lingue anatoliche – che sono quelle di più antica attestazione di tutto la famiglia indoeuropea (e per capire se c’è accordo grammaticale occorrono delle attestazioni) – si vede al meglio l’opposizione fra inanimato e comune (non c’è il femminile): il genere comune vale per tutti i referenti maschili e femminili e perfino gli inanimati lo possono assumere se provvisti di un determinato suffisso che li trasforma in animati (così come noi possiamo femminilizzare un maschile aggiungendogli un suffisso, per esempio -a o -essa).

In tutte le altre lingue (tranne l’armeno e oggi, di fatto [a parte i pronomi], alcune lingue germaniche come l’inglese) compare anche il femminile, esclusivamente per referenti femminili (se viventi; tranne con alcune specie animali: tigre, giraffa, pulce, formica, moscazanzara, che funzionano come genere comune) oppure attribuito in modo imprevedibile a referenti inanimati o astratti (la scala, l’uscita, la fine – mentre il fine no – o classicismi come barbarie, psiche, stele, pàrodo &c.). Come ovvio, nel caso di referenti inanimati o astratti il femminile non è davvero femminile (così come il maschile di buco – rispetto a buca – o di calcolatore rispetto a calcolatrice o di pavimento, cielo, sole, fango, inganno, premio &c. &c. non è un maschile); per le specie animali come tigre funziona da genere comune.

Nella grammatica, il genere comune è stato chiamato maschile nelle lingue che avevano anche il genere femminile; ha però continuato a funzionare come genere comune. Così, presidente (che di per sé non ha desinenze maschili; essendo un participio della terza declinazione latina, il “maschile” coincide col femminile perché in realtà hanno la stessa desinenza) è comune; se si vuole sottolineare che ha un referente femminile si usa la classica strategia della suffissazione (president-essa), altrimenti si lascia comune. I referenti maschili non hanno una desinenza maschile a disposizione: si usa la forma comune. Importante: l’antico suffisso -o- non solo non era maschile (era comune), ma non era neppure solo comune, era anche inanimato (infatti in latino ha dato origine sia a -u-s sia a -u-m: la differenza sta nella desinenza – non nel suffisso – e l’italiano ha perso la desinenza, per cui è rimasto il suffisso, indifferente al genere).

In varie lingue indoeuropee, il neutro è scomparso, confluendo nel maschile al singolare e nel femminile (dita, uova) al plurale (in italiano ci sono pochissimi residui di neutri plurali; in varî dialetti centro-meridionali e in romeno invece è rimasta l’intera categoria). In altre lingue romanze, tutto il neutro è diventato femminile (per esempio, in francese la mer ‘il mare’).

In italiano, francese, latino, greco, tedesco, russo &c. il verbo non cambia a seconda del genere (solo in pochissimi dialetti, come in quello di Ripatransone); nelle lingue semitiche invece sì. Nelle lingue indoeuropee (a parte Ripatransone e a parte l’armeno), dunque, il genere si riconosce solo dall’accordo fra aggettivo (quando è distinguibile, quindi non gli aggettivi della seconda classe, in -e, come comune, fragile, breve &c.) e sostantivo (in milanese, solo al singolare; il plurale è indistinto per genere, sia nei sostantivi – tranne tosann ‘ragazze’ – sia negli aggettivi).

Dopo tutto ciò, possiamo circoscrivere l’esistenza dell‘opposizione fra “maschile” e femminile: l’accordo fra aggettivi della prima classe (in -o, -a; plurale -i, -e) e sostantivi con referenti umani (in tutti gli altri casi, come piovra o opera, l’opposizione di genere è puramente formale e non ha niente a che vedere col genere naturale; invece di “maschile” e “femminile” si potrebbero – meglio – usare “classe -o” e “classe -a”, se non fosse che ci sono anche i sostantivi ambigui in -e come duce tigre, oltre al dolce da mangiare, che è semplicemente un neutro latino rimasto invariato).

A questo punto arriviamo all’osservazione decisiva.

Il genere femminile, in questi casi (che sono gli unici in cui è davvero femminile), sottolinea il genere naturale femminile del referente ed è esclusivo (si usa solo con femmine), ma non obbligatorio: Giorgia Meloni, per la Legge, è Presidente del Consiglio dei Ministri (non è stata introdotta una nuova carica di Presidentessa) e lo sarebbe anche se tutti i Ministri fossero Ministre. Se diventasse Presidente della Repubblica, non ci sarebbe una modifica istituzionale dello Stato perché sia Presidentessa: lo sarebbe automaticamente, perché Presidentessa è semplicemente una Presidente donna (una presidente si può dire, tanto quanto una presente o una paziente). La Regina Elisabetta II. è il Re (ossia il Sovrano) che ha regnato più a lungo sul Regno Unito e sull’Inghilterra; se Carlo o suo figlio la superassero, non sarebbe più il Re che ha regnato più a lungo, ma rimarrebbe la Regina che ha regnato più a lungo. Regina è semplicemente un Re donna.

L’estremo è fratelli e sorelle. I miei nonni paterni hanno avuto tre figli, tutti e tre maschi (per capirlo bisogna specificarlo); i miei nonni materni hanno avuto quattro figli, due maschi e due femmine, quindi hanno avuto quattro figli e due figlie (si può anche dire che hanno avuto due figli e due figlie, ma devono essere insieme in opposizione perché si capisca che qui figli vuol dire ‘figli maschi’; non si augurerebbero figli maschi se figli non potesse significare anche figlie). Dunque mia mamma aveva tre fratelli: due maschi e una sorella. Si può anche dire che aveva due fratelli e una sorella, ma anche in questo caso devono essere insieme in opposizione perché si capisca che fratelli vuol dire ‘fratelli maschi’. Erano perciò quattro fratelli: due maschi e due femmine (di nuovo, si può dire che erano due fratelli e due sorelle, ma devono essere insieme in opposizione perché si capisca che fratelli vuol dire ‘fratelli maschi’).

Per riassumere: una volta (forse già in indoeuropeo preistorico, di sicuro sùbito dopo) c’erano tre generi, un inanimato, un comune e un femminile. Il femminile – dove era davvero tale – era ed è tuttora esclusivo per femmine (umane, ossia per donne); denota una speciale attenzione per le donne. Il comune è stato chiamato maschile perché i maschi (e tutti gli altri) avevano a disposizione solo questo e non il femminile; il nome denota comunque una speciale attenzione ai maschi ed è quindi maschilista. Siccome, tuttavia, è rimasto in tutto e per tutto un genere comune, allora lo si è percepito (ingenuamente) come “maschile sovraesteso”, mentre non è mai stato sovraesteso (da un precedente impiego ipoteticamente meno esteso): l’unica sovraestensione è stata di chiamarlo maschile perché unico disponibile per i maschi, quando invece si sarebbe dovuto continuare a chiamare comune (perché include[va] di tutto) o al massimo non femminile (meglio: non solo femminile).

Questa sovraestensione è innegabilmente maschilista (ma nei confronti degli altri animali e delle cose / entità astratte, non delle femmine). Considerarlo realmente maschile (prendere sul serio il nome) è appunto innegabilmente maschilista (ma anche ingenuo, come i bambini quando sostengono che il mattino è un piccolo matto e il mattone è un grande matto). Il punto di partenza delle riflessioni attuali sul genere grammaticale è maschilista e ingenuo, per me non condivisibile (per il semplice fatto che so come sono andate in realtà le cose; sarebbe come credere davvero ad Adamo ed Eva).

La soluzione che viene proposta (quella di asterischi e affini) è poi illusoria: come se la lingua cambiasse per decreto o per volontà popolare.

Neppure i Regimi Totalitarî ci sono riusciti e in ogni caso fra i Diritti Umani c’è quello di usare la propria lingua, senza che nessuno venga a proibirTi di parlarla come l’hai acquisita da bambino o Ti attribuisca determinate idee politiche se la parli.


Un articolo di Guido Borghi


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