All’epoca del primo popolamento dell’Europa da parte dell’uomo anatomicamente moderno, tra 40.000 e 30.000 anni fa, l’arrivo della specie Hŏmō săpĭēns săpĭēns ha introdotto lingue definibili come parte del macrocaucasico (fase anteriore del caucasico settentrionale e del vasconico), da un lato, e del protoeurasiatico (fase anteriore del protoindoeuropeo, del protouralico, del protoaltaico &c.) dall’altro.
Il (proto)eurasiatico dopo il ‟distacco” del (proto)uralico, del (proto)altaico &c., può essere identificato con il protoindoeuropeo, che durante i rimanenti millenni del Paleolitico Superiore è stato un sistema linguistico comune ai popoli di vaste regioni dell’Asia centrale, meridionale, occidentale, del Mediterraneo e dell’Europa libera dai ghiacci.
L’indoeuropeo preistorico rappresenterebbe quindi una vasta area conservativa all’interno dell’eurasiatico e indirettamente dell’euroafroasiatico, estesa in epoca glaciale dall’Atlantico all’India.
L’indoeuropeo comune si colloca nel Paleolitico ed era caratterizzato da un sistema fonologico, morfologico e lessicale comune (o ‟unitario”).
La tipologia morfolessicale dell’indoeuropeo comune, permetteva di unire ogni radice a qualunque suffisso (esclusi, nel lessico appellativico, i casi di incompatibilità morfo-semantica), ossia che nella comunione linguistica indoeuropea sussistesse una generabilità illimitata di formazioni lessicali attraverso l’unione di radici e affissi.
Anche le parole composte rappresenterebbero formazioni ‟primarie”.
La progressiva differenziazione dell’indoeuropeo sarebbe consistita nel fatto che le varie centinaia di comunità indoeuropee distribuite tra l’Eurasia e l’Africa settentrionale avrebbero fissato il proprio lessico, ciascuna combinando le radici e i suffissi indoeuropei comuni in parole dal significato preciso, non prevedibile attraverso la semplice somma dei significati radicali e suffissali.
Nella Teoria della Continuità, il tempo disponibile per la differenziazione lessicale entro l’indoeuropeo è di varie decine di millenni (circa trenta nella versione ‟debole”). Durante questo lentissimo processo, in ogni regione dell’Indoeuropa (a eccezione delle aree glaciali) si sono stanziati i gruppi umani indoeuropeofoni che hanno dato origine alle lingue locali attestate in epoca storica. Si postula quindi che l’indoeuropeizzazione dell’intera Indoeuropa sia avvenuta in una fase in cui il sistema indoeuropeo persisteva nelle forme in cui viene ricostruito per la fase comune.
Durante il Mesolitico, in concomitanza con la colonizzazione delle zone liberate dai ghiacci, è proseguita la lessicalizzazione – differenziata – con tutto quanto generabile dall’unione illimitata di radici e suffissi; ciascuna comunità ha fissato determinate combinazioni di radici e suffissi, che da quel momento sono passibili di deriva semantica. Come conseguenza, sono emersi confini linguistici di natura lessicale (non fonetica); le tribù indoeuropee hanno così terminato di individuarsi linguisticamente, dando origine a una cinquantina di indoeuropei preistorici fonologicamente simili, ma senza più comprensibilità reciproca. In questo quadro è possibile applicare metodi ricostruttivi indoeuropeistici all’etimologia di parole attestate in una sola lingua indoeuropea – o in più lingue, ma con varianti non imputabili alla diversa fonetica.
L’indoeuropeo mesolitico doveva essere inizialmente caratterizzato da un sistema fonologico e morfologico comune. Durante questa fase, tuttavia, le innovazioni morfologiche (di norma semplificazioni e generalizzazioni di regole) non si sono più diffuse attraverso i confini che ormai separavano i cinquanta gruppi; perduta la mutua comprensibilità lessicale, le innovazioni nel sistema morfologico sono rimaste di volta in volta confinate a singole comunità o gruppi tra i quali sussisteva la comprensibilità reciproca. Al termine del mesolitico, le tribù indoeuropee parlavano differenti norme, sia pure unite da una comune fonetica e da una ancora grande affinità a livello morfologico.
Durante il Neolitico, le comunità di cacciatori e raccoglitori delle coste
mediterranee, atlantiche, baltiche &c. hanno sviluppato un’economia di tipo
(anche) agricolo, mentre in Europa Centrale si assisteva a un aumento di popolazione
che inglobava i preesistenti cacciatori e raccoglitori in un’ondata
demica originatasi nel VII. millennio a.C. in Anatolia. Tutti questi gruppi, sia
di cacciatori-raccoglitori che di agricoltori, possono essere classificati linguisticamente come indoeuropei; tutte le teorie sono perfettamente conciliabili se si ammette che nel Neolitico l’agricoltura sia stata diffusa da gruppi (principalmente) parlanti varietà di indoeuropeo preistorico,
ma sopra popolazioni già parlanti indoeuropei preistorici.
Dal punto di vista delle trasformazioni interne, risalirebbe a questa fase la
maggior parte delle innovazioni morfologiche che hanno differenziato le varie
tribù indoeuropee anche a livello grammaticale; unico componente rimasto
sostanzialmente unitario in tutta la vasta area indoeuropea sarebbe quello fonetico-
fonologico. Analoga è l’ipotesi pisaniana che il diasistema preistorico
(‟dialetti indoeuropei”) fosse – nelle fasi non iniziali – ben differenziato morfologicamente e lessicalmente al proprio interno, quindi che le innovazioni
monoglottiche fossero già preistoriche e in fonologia ‟indoeuropea”.
Anche la versione ‟debole” ha una propria forma di ‟teoria della continuità
minima”, che si riassume nei due seguenti assunti: a) c’è stato almeno un
periodo (il Neolitico e/o il Calcolitico?) in cui in tutte le (future) sedi storiche
delle lingue indoeuropee si parlavano forme di indoeuropeo preistorico caratterizzate
da una medesima fonologia ricostruita. Generalmente, tali presenze
indoeuropee preistoriche locali del Neolitico rappresentano la continuazione
diretta di tradizioni preneolitiche negli stessi luoghi.
Un articolo di Guido Borghi ed Emanuele Rizzardi
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