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Arte moderna europea: razzista, maschilista e omofobica?

Articolo scritto nel 2020:


È di questi giorni la notizia che l’Università di Yale voglia mettere al bando dalla prossima primavera il “Corso di storia dell’arte dal Rinascimento ad oggi” in quanto non rispetta gli standard del “politicamente corretto“ e vuole evitare agli studenti un disagio, perché “il canone occidentale della bellezza analizzata” sarebbe il risultato di uno scenario “oppressivo” frutto di una cultura “bianca, maschilista, eterosessuale ed europea”.

Direi che è un dato di fatto incontrovertibile che nel Rinascimento (ma anche nel Medioevo) ci fossero troppi artisti bianchi, maschi ed eterosessuali, anche se su quest’ultimo ci sono meno certezze, visto che non si usava fare outing a quei tempi, se si esclude Bazzi, detto Il Sodoma! Erano sospettati di essere gay Leonardo, Cellini e Botticelli e si vocifera che perfino Michelangelo e Caravaggio lo fossero… Tanto per fare qualche nome che non metterebbe troppo a disagio gli studenti di Yale.

Sulla presenza di donne fra gli artisti moderni, escluse le ben note Gentileschi e Carriera e poche altre e di pittori di colore, di cui non me ne sovviene nessuno, non credo che ne possiamo fare una vergogna da cancellare. Non ci sono stati papi donne o neri fino ad oggi. Le poche donne che si distinguevano fra le nobili per ottenere un certo grado di autonomia, dovettero sgomitare parecchio.

Per quanto poi riguarda i contenuti delle opere, sono certamente maschilisti, certamente eurocentrici anche se non particolarmente omofobici (tantissime sono le allusioni nelle opere famose, basta saperle cogliere!). Ma ovvio, i committenti erano o regnanti o nobili o prelati, quindi i temi erano sempre quelli: ritratti, racconti biblici o evangelici, metafore tratte dalla mitologia classica per rappresentare vizi e virtù e inneggiamenti alle vittorie militari e alle conquiste coloniali. Ovvio che tutto ciò oggi sia anacronistico, ma allora NON studiamo più la storia greca o romana perché erano biechi imperialisti o quella medievale perché erano bigotti o l’epoca dell’inquisizione e neppure quella più recente perché ci inorridiscono i fatti avvenuti nel XX secolo…

Ma si studia per imparare e per ricordare (memoria, per non ripetere gli stessi sbagli) o è meglio ignorare quello che è successo nel passato perché non ci piace o ci disturba o ci “mette a disagio”?

Questo punto di partenza mi ha spinto da veneta e da amante dell’arte rinascimentale veneziana a ricordare che in moltissimi quadri e affreschi di Carpaccio, Bellini, Mantegna, Giorgione, Tiziano, Veronese, Tiepolo... compaiono uomini o donne o ragazzini di colore. Così ho fatto una piccola ricerca sulla raffigurazione del “moro veneziano” che poi si ritrova anche in lampade, candelabri, soprammobili e monili.

Durante la prima età moderna, i neri venivano rappresentati in svariate forme dagli artigiani locali. Venezia era una città che faceva da ponte tra l’Europa, il Mediterraneo e il mondo orientale e che andava fiera del proprio cosmopolitismo. I dipinti veneziani, dove si notano uomini africani, in particolare Il miracolo della Vera Croce al Ponte di Rialto (1494) e Caccia in laguna del Carpaccio (1495) e Il miracolo della Vera Croce al Ponte di San Lorenzo di Gentile Bellini del 1500, così come la storia di queste genti a Venezia, constatando come, in tutta la complessità e sovente anche crudeltà della situazione, la Serenissima sia stata un luogo sì di schiavitù nelle case dei patrizi, ma anche luogo di integrazione per le popolazioni africane. Infatti, la schiavitù a Venezia poteva essere un momento di passaggio nella vita di un africano, poiché alla morte del “padrone” o alla scadenza dell’accordo, secondo la legge, si veniva liberati da tale condizione. Visto che la Serenissima, a causa del suo sistema lagunare complesso e fondamentale per l’economia della città, aveva un bisogno costante di forza lavoro, la gran parte degli uomini africani divenuti liberi, venivano impiegati come gondolieri, diventando così membri sostanziali della struttura cittadina.

Giorgio Brognolo, agente di Isabella d’Este a Venezia, conosceva bene la moda dei servitori neri a seguito della sua permanenza a Napoli, come dimostrato anche dai quadri che ella commissionava al Mantegna. Da Venezia questi ragazzi e bambini africani arrivarono anche a Ferrara. La pelle nera era più che altro simbolo di esotismo e non per forza di inferiorità. Ne La camera degli sposi di Mantegna (1465 e il 1474) la serva di colore accompagna la dama insieme con altre fanciulle, come fosse una cosa abituale all’epoca. Sempre a Mantova gli fu commissionata L’adorazione dei Magi, eseguita nel 1464, dove vediamo uno dei re magi nero con una corte di africani. Mantegna influenzò anche i pittori veneti quali Giorgione e Tiziano; si veda il Ritratto Laura Dianti con il suo paggetto del 1523 e Diana e Atteone del 1559 (Londra, National Gallery), dove uno dei principali elementi decorativi è la figura di un servitore nero dal fascino esotico; e Veronese che scelse di rappresentare un’ancella nera nei quadri dove si narrava la storia di Giuditta e Oloferne del 1580.

La scelta di rappresentare i mori come uomini africani e la loro successiva popolarità nell’ambito delle arti decorative e dell’oreficeria in particolare, possono essere collegate, inoltre, al culto tedesco di San Maurizio e alla creazione tardo medievale dell’iconografia legata al Re Mago Baldassarre, anche questa una influenza della Germania su Venezia, collegate da una fitta rete commerciale e culturale. In Boemia, infatti, l’iconografia si era sviluppata tra il 1350 e il 1450, giungendo a Venezia alla fine del Quattrocento. E fu con Tiziano che il Re Magio africano divenne un soggetto popolare, come il più giovane dei tre re.

Un altro elemento tedesco, legato all’iconografia dell’uomo africano giunta a Venezia, era quello di San Maurizio. Si tratta di una tradizione iconografica diffusa in Germania, a Magdeburgo in particolare, tra il 1220 e il 1250. Il culto di questo martire, santo e soldato del III secolo, è stato particolarmente popolare dal Trecento al Cinquecento incluso, da nord a sud, dalla Scandinavia all’Italia. La leggenda vuole che, quale capo della Legione Tebana d’Egitto, avesse rifiutato di perseguitare e uccidere i cristiani in Gallia, andando così lui stesso incontro alla morte. È da rilevare come i tratti fisionomici di uomo africano siano apparsi per la prima volta proprio sulla sua statua all’interno della Cattedrale di Magdeburgo, dove non fu rappresentato quale servitore esotico, ma vero e proprio cavaliere della cristianità. Anche qui a quanto pare l’influenza dell’imperatore Federico II, delle sue idee sull’universalismo evangelico e del suo amore per la sua multiculturale corte siciliana, avevano giocato un ruolo cruciale. Negli affreschi della chiesa di San Zeno a Verona, area veneta quindi, fu rappresentata una processione di ventinove uomini, simbolo di tutta l’umanità, molti con la pelle scura e i capelli ricci, dunque africani, i quali offrono una corona a Federico II che più volte aveva soggiornato nella città tra il 1236 e il 1239.

Infine bisogna porre l’accento su come nell’Italia della prima età moderna i cristiani fossero persone libere e come nessun cristiano potesse essere legalmente messo in schiavitù. La schiavitù, quindi, non aveva niente a che fare con la razza, ma con la religione e la provenienza. Gli schiavi non furono mai una forte percentuale della popolazione, neanche a Genova centro del commercio italiano di schiavi. Se si pensa ai “Quattro Mori” di Pietro Tacca (1577-1640), grandi sculture bronzee alla base del monumento dedicato a Ferdinando I a Livorno, eseguite tra il 1623 e il 1626, si può intuire quale fosse in Italia il concetto di schiavitù. Il monumento commemora le vittorie del Granduca sugli Ottomani e i pirati del Mediterraneo. Quindi ha quindi un chiaro intento politico, legato alle vittorie sugli infedeli, dove però i quattro schiavi di diverse etnie, un greco, un turco, un nordafricano e un nero di origine sub sahariana, vengono rappresentati in tutta la loro bellezza e umanità e sono simbolo delle quattro età della vita.

Un altro elemento si deve dare per certo: la cultura classica aveva un forte ascendente sulla Serenissima, che così sovente amava rimarcare la propria origine romana, eccessivamente idealizzata, visto che in realtà l’unico insediamento di epoca romana in Laguna era stato quello di Torcello. Tuttavia, come già detto, a Venezia si producevano cammei dal gusto classico con raffigurati profili di uomini africani.

Certo non è un caso se una delle tragedie di Shakespeare parli di un generale nero della flotta veneziana, Otello. La Serenissima sceglie quale ornamento-emblema della città il busto di un uomo africano.


Bibliografia:

A. Buttitta, La nascita di un gioiello, il Moretto Veneziano, in Rivista dell’Osservatorio per le Arti Decorative in Italiahttp://www1.unipa.it/oadi/oadiriv/?page_id=3127

J. Spicer, Revealing the African Presence in Renaissance Europe https://issuu.com/.../singlepages3429_african_presence_10


Un articolo di Susanna Valpreda


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