Una nota critica a cura di Guido Borghi, riguardo l'onomastica in gallico tardoantico del romanzo "Lo stendardo di Giove".
Si tratta di una breve analisi del lavoro sui nomi in gallico, nel contesto dell'impero romano degli ultimi anni di Teodosio.
"Brigantia, Arbogaste, Nicomaco Flaviano: tre protagonisti che scrivono le proprie memorie, tre rappresentanti delle ‘Nazioni’ dell’Impero tardoantico. Brigantia (la Alta, Montana, l’Aurora) apre e chiude il romanzo: non è un personaggio noto dalle fonti, ma porta uno dei più tipici nomi femminili celtici antichi (e indoeuropei preistorici) e, oltre che dei Galli, è una figura paradigmatica di tutte le popolazioni non latine o greche dell’Impero come erano state fino a Caracalla.
È ancora perfettamente bilingue in entrambe le varietà (locale – nel suo caso, data la localizzazione, celtica – e latina rustica) che il repertorio delle comunità dell’Impero prevedeva; soprattutto, appartiene a una delle due categorie sociali che resisteranno più a lungo, ancora per secoli e secoli, alla completa romanizzazione linguistica (intesa come abbandono a ogni livello della parlata prelatina, giusto a partire dagli anni in cui si colloca la vicenda principale del romanzo): tempo dopo, le sue omologhe sarebbero state considerate come ‘streghe’ (l’altra categoria più resistente è costituita dai carpentieri e dagli altri artigiani specializzati, che rimarranno come mastri muratori; entrambe le categorie erano troppo importanti per poter essere costrette con la forza alla conversione religiosa e linguistica).
Brigantia parla in gallico e il romanzo, coraggiosamente, le dà voce, spesso con la menzione da parte sua dell’epiteto catu-uellaunos (vocativo catu-uellaune) ‘signore delle battaglie’ attribuito al caratos ‘amato’ (vocativo carate) Arbogaste (il Vecchio, rispetto all’omonimo Comes di Treviri suo possibile discendente), celebre personaggio storico nonché modello di magister mīlitum romano-germanico, forse figlio dell’omologo e console (385) Bautone († 388) o del fratello di questi, il principe chamavo Nebigaste (358), nonché della sorella di Richomero († 393), console (384) e bisnonno paterno del Re dei Franchi Meroveo. Il racconto valorizza l’accezione etimologica comparativa (indoeuropea) di Arbogastiz ‘straniero orfano’ rispetto al significato germanico (Arbogastiz ‘ospite lavoratore’, con gli stessi elementi di composizione del tedesco Gastarbeiter ‘immigrato per ragioni economiche’) e alla variante più antica Arwogastiz ‘ospite veloce, pronto’, essa pure peraltro ben descrittiva del carattere (in effetti può darsi che la forma alternativa sia storicamente sorta e sia stata favorita a tale preciso scopo, come accade nei sistemi tradizionali).
Chi si diletta di onomastica letteraria apprezzerà altresì l’attribuzione a Virio Nicomaco Flaviano (334-394, a sua volta ‘il Vecchio’ in segno di distinzione dall’omonimo figlio) della restaurazione della Statua della Vittoria nel Senato Romano, in sintonia col significato greco del suo gentilizio Nīkómachos ‘che combatte per la Vittoria’; sono del resto suggestivi anche i nomi di personaggi che nell’azione ricoprono ruoli secondarî, come i Galli Dagomâros ‘grande di bontà’ (figlio di Brigantia) e Broccos ‘tasso (zool.)’ (capo di un vicino villaggio alpino), che contribuiscono con forza alla raffinatezza dell’opera. Soprattutto, però, possiamo esser certi (anche se non viene detto esplicitamente) che Brigantia avrà notato sia il successo della marcia attraverso la regione sua omonima, la Brigantiâ (Brianza) ‘Montuosa’, sia – prima e più ancora – il carattere fausto e ominoso della vittoria nella più significativa battaglia combattuta durante il viaggio verso Milano (in celtico Mediolânon ‘piano / pieno nel mezzo’, la massima capitale galloromana dell’Impero), a Seprio / Sibrium, all’epoca *Segibrix o *Segibrigon ‘monte della vittoria’: questo squisito particolare costituisce forse il momento in cui meglio riusciamo a comprendere la mentalità simbolica e olistica dei Protagonisti.
È importante sottolineare che la più sentita linea di frattura e distinzione etnica nell’intera storia, quella fra Cristianesimo e Religione Tradizionale, è trasversale alle altre appartenenze, perché divide sia l’Aristocrazia (greco-)romana sia la componente militare romano-germanica; solo la popolazione territorialmente ‘pagana’, nel nostro caso in assoluta prevalenza gallica (/galloromana), appare tale pressoché per intero anche sul piano religioso e richiama i coevi Bagaudae ‘signori della guerra’ o – a seconda della quantità vocalica della prima sillaba – ‘degli Dèi’ (detti pure, con significativa variante, Bacaudae ‘durevolmente felici’), fenomeno sociale tardoantico tanto importante per la Sociolinguistica quanto sottovalutato nel complesso dalla Storiografia (a parte, per comprensibili ragioni, la marxista).
Il romanzo presenta manifesti punti di contatto col filone inaugurato da Charles Bernard Renouvier, Uchronie. L’Utopie dans l’Histoire (Esquisse historique apocryphe du développement de la civilisation européenne tel qu’il n’a pas été, tel qu’il aurait pu être), Paris, Bureau de la Critique Philosophique, ²1876 (¹1857), fittizio manoscritto di un monaco (collocato fra XVI e XVII secolo) sulla restaurazione della Repubblica Romana alla fine del II secolo d.C. e conseguente mancata adozione del Cristianesimo come Religione ufficiale. In Sotto lo stendardo di Giove le concessioni all’ucronia sono poche, ma i personaggi che scrivono riportano, oltre alla propria percezione degli avvenimenti (molto ben resa secondo il punto di vista della Religione Tradizionale), anche le proiezioni sul futuro, presentate sia nella forma dell’iperbole paradossale (per noi di efficacissima provocatorietà, forse uno dei vertici dell’opera) di evocare quasi per scaramanzia (di cui merita di essere ricordato l’etimo gallico: *excâro-mantiiâ ‘eccesso di male’) una nomina dell’Imperatore da parte del Papa (dove il riferimento, ben più che a Carlomagno la notte di Natale dell’800 o a Carlo V ‘Quinto Carlo Massimo’ a Bologna nel 1530, è alla lotta fra Papato e Impero, specialmente nella sua fase parossistica da Enrico IV a Federico II) sia in quella dell’ermeneuticamente fondamentale visione profetica da parte di Brigantia, sacerdotessa e madre, sul figlio avuto da Arbogaste e chiamato col nome del nonno/prozio paterno Bautone (/Baudone) ‘Eroe (che combatte)’.
Con la Dinastia dell’ispanico Teodosio (I), l’Impero imbocca definitivamente la strada della traslazione ai Greci; se l’alternativa storica in Occidente è stata quella ai Franchi (più che mai con e da Carlomagno), l’ucronico destino immaginato da Brigantia e Arbogaste per il figlio Bautone ne rappresenta una variante (gallo-romano-germanica e in particolare francogallica) tradizionale sul piano religioso e cisalpina per quanto riguarda il centro del Potere. Si è molto discusso – e sempre lo si farà – sulle conseguenze che potrebbe aver avuto una sconfitta di Teodosio nella battaglia finale sul fiume Frigido (conclusione della vicenda primaria qui descritta): adozione di una diversa Religione Imperiale, forse più sincretica (o almeno in modo più esplicito rispetto all’Ortodossia Cattolico-Apostolica Romana), anche se il modello fornito dall’Impero Persiano dei Sāsānidi avrebbe comunque conservato tutta la propria potenza esemplare (magari anzi rafforzata dallo sviluppo del Culto di Mithras, in ogni caso connesso a Miθra); con ogni probabilità, sopravvivenza delle lingue preromane se non altro nel ruolo di basiletti che avevano nella situazione di diglossia antica (il che significa perfino che forse oggi queste pagine potrebbero essere state scritte in un volgare gallico anziché neolatino).
È pensabile che la Spedizione di Radagaiso (il quale compare come personaggio anche qui) avesse luogo ugualmente, per quanto con un obiettivo diverso da quello dichiarato di voler sacrificare tutti i Senatori (Cristiani) agli Dèi; in generale, non si può ritenere garantito che un’altra Religione Imperiale modificasse le direttrici e i rapporti di forza geopolitici del tempo o delle epoche successive, ma tutto ciò è appunto materia di un ricco e forse inesauribile dibattito storiografico. Pressoché esclusivo di questo libro – almeno finora – è invece lo scenario in cui un vittorioso Arbogaste arrivasse a porre sul Trono il figlio avuto da una sacerdotessa galloromana; la rappresentazione contrastiva, per quanto implicita, fra questo e la Storia reale è la tensione di fondo che pervade l’intera opera, fra le previsioni dei Protagonisti e le conoscenze dei Posteri Lettori.
Ce ne possiamo costruire uno schema, sia pur approssimativo? Un tentativo sembra lecito. La Dinastia di Arbogaste avrebbe regnato sui territorî che nell’Alto Medioevo erano noti, in altotedesco, come Walholant (Gaule ‘Gallia’ in francese), dalla Britannia all’(ex-)Italia Annonaria; in gran parte comprendono l’Impero Carolingio, anche se il centro del Potere ne sarebbe stata – come anticipato – più la Gallia Cisalpina che la Transalpina. Secondo l’esempio dello stesso Arbogaste, i Germani sarebbero stati pienamente incorporati nell’Impero e, senza le conseguenze sociolinguistiche degli Editti Teodosiani, il Sacro Romano Impero (non esclusivamente Cristiano) sarebbe stato – come il suo storico nome ufficiale recitava – “della Nazione Tedesca e Gallesca” in senso etimologico proprio, con gallesco nell’accezione originaria di ‘gallico’/‘celtico’. Invasioni, spartizioni e secessioni sono sempre possibili, ma è un fatto che, senza il cruciale ruolo ‘rivale’ dello Stato Pontificio, l’Impero sarebbe rimasto unito sia nel X sia nel XVI e nel XVIII secolo e dunque forse ancora oggi, allorché la sensibilità interreligiosa è più simile a quella dell’Imperatore Eugenio qui rappresentato, ma il sistema geopolitico è in larghissima misura cambiato. Al Lettore di concludere quale alternativa preferire."
Borghi Guido
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