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Immagine del redattoreEmanuele Rizzardi

I Normanni in battaglia secondo Anna Comnena

Segue estratto dell'Alessiade, libro XIII, di Anna Comnena, riguardo le caratteristiche battagliere dei Normanni. Ho aggiunto qualche piccola nota esplicativa.


[Il basileus Alessio] Li rifornì [i suoi soldati] di abbondanti frecce, raccomandando loro di non risparmiarne affatto, ma di saettare contro i cavalli piuttosto che contro i Celti [Normanni e Franchi], sapendo che, quanto alle corazze e alle maglie di ferro, essi erano difficilmente vulnerabili o anche completamente invulnerabili; riteneva dunque completamente insensato tirare inutilmente.

L’armatura celtica è una tunica di ferro intrecciata di anelli l’uno con l’altro, e il materiale di ferro è di così buona qualità che è capace di respingere una freccia e proteggere il corpo del soldato. In aggiunta alla loro difesa hanno anche uno scudo non rotondo, ma ovale che, cominciando da larghissimo, finisce a punta; all’interno è leggermente incavato, ma liscio e splendente sulla superficie esterna e scintillante sull’umbone di bronzo.

Una freccia, sia essa scitica o persiana, pure se scagliata da braccia gigantesche, respinta da quello scudo ritornerebbe indietro a colui che l’abbia scagliata.

Per questi motivi, dunque, l’imperatore, essendo esperto, credo, delle armi celtiche e dei nostri proiettili, ordinò che, tralasciando gli uomini, attaccassero piuttosto i cavalli e li esortò a renderli alati con le frecce, nello stesso tempo anche perché i Celti, smontando da cavallo, diventassero facili da catturare; il guerriero celtico, infatti, a cavallo è irresistibile e trapasserebbe anche il muro di Babilonia, ma quando scende da cavallo diventa un gioco per chi lo vuole [vincerlo]. [Alessio], conoscendo la natura perversa di coloro che lo seguivano, non volle oltrepassare i valichi, sebbene smaniasse molto dalla voglia di sostenere, lui in persona, una battaglia in campo aperto con Boemondo [di Taranto], come anche prima spesso da noi è stato esposto; era, infatti, di fronte ai combattimenti più tagliente di qualsiasi spada, intrepido di spirito, e completamente imperturbabile.

Ma i fatti accaduti che gli opprimevano terribilmente l’anima lo trattenevano dall’impresa. Boemondo si trovava, dunque, ristretto da terra e da mare, infatti l’imperatore sedeva come uno spettatore di ciò che accadeva nella pianura dell’Illirico, sebbene egli con tutto il cuore e il pensiero stesse insieme ai combattenti e partecipasse con loro alle medesime fatiche e sofferenze, se non forse si potrebbe dire che fossero anche più numerose, incitando ai combattimenti e alle battaglie i comandanti appostati sulle colline dei valichi e suggerendo come bisognava attaccare i Celti [...]

Poiché gli [a Boemondo] venivano meno le stesse vettovaglie che venivano portate per mare e quelle che si aggiungevano da terra, [Alessio] vedeva che la guerra procedeva con grande perizia; quando, infatti, qualcuno usciva dal campo per il foraggio o anche per qualche altra raccolta di messi o se anche conducevano fuori i cavalli al beveraggio, i Romani li attaccavano e ne massacravano la maggior parte, a tal punto che il suo esercito [di Boemondo] a poco a poco si andava sterminando, egli mandò dei messi al dux di Durazzo Alessio per chiedere le trattative di pace. Anche un nobile tra i conti di Boemondo, Guglielmo Clarele, appena vide che tutto l’esercito dei Celti stava morendo per fame e malattia (infatti una terribile malattia era piombata loro addosso dall’alto), provvedendo alla su [a] salvezza, con cinquanta cavalieri diserta dalla parte dell’imperatore [...]

[Il basileus] aveva appreso, tramite la lettera di Alessio, che Boemondo gli aveva inviato un’ambasceria per trattare la pace; considerando che quelli del suo entourage tramavano sempre qualche danno contro di lui, vedendo che si ribellavano ogni momento e sentendosi colpito più dagli intimi che dai nemici esterni, gli sembrò opportuno non combattere più a lungo contro gli uni e gli altri con entrambe le mani, e, facendo di necessità virtù, come si dice, ritenne che fosse meglio accettare la pace con i Celti.


Un articolo di Emanuele Rizzardi


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