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Appunti sulla demografia romana

Differenze fra il mondo romano e l’Italia contemporanea

Se si parte dai numeri, le differenze fra il mondo romano e l’Italia contemporanea diventano visivamente impressionanti. I grafici e la tabella che hai sopra mostrano, per classi di tre anni, la percentuale dei decessi in quattro popolazioni “tipo”: popolazione urbana non-élite dell’Impero romano, popolazione rurale romana, élite urbana romana e Italia di oggi.

I modelli sono semplificati ma costruiti per essere coerenti con le stime di demografia romana e con le tavole di mortalità moderne: per i Romani una speranza di vita alla nascita intorno ai 25–30 anni, con variazioni sociali e regionali, per l’Italia un valore vicino agli 83–84 anni.

La prima cosa che colpisce è l’enorme “muro” di morti precoci nel mondo romano. Nella simulazione, circa un terzo di tutti i decessi urbani non-élite cade nella classe 0–2 anni, e un altro buon quinto tra i 3 e i 5 anni. È l’effetto della mortalità infantile tipica delle società pre-moderne, documentata anche per l’Egitto romano e per altre regioni dell’Impero, dove una parte consistente dei bambini non superava i primi anni di vita.

Dopoquell’imbuto iniziale, la curva non si appiattisce davvero: lungo tutta l’adolescenza e la prima età adultapermane una mortalità non trascurabile, legata a malattie infettive, incidenti, guerre e, per le donne, ai rischidel parto. Il risultato è che le classi centrali, fra i 30 e i 60 anni, raccolgono una parte importante dei decessi, egli ultra-sessantenni restano relativamente pochi.


Città e campagna nel mondo romano


Se ci si sposta nella campagna romana, la curva cambia leggermente forma. Le prime classi di età restanomolto colpite, ma un po’ meno che in città: meno densità, minor esposizione a epidemie e alla “demografianegativa” tipica dei grandi centri urbani, che nel mondo romano probabilmente non riuscivano a riprodursisenza apporto costante di migranti dalle campagne.

Il rovescio della medaglia è che, in caso di carestie o crisi agrarie, la mortalità rurale poteva impennarsi. Nel modello la speranza di vita alla nascita sale comunque di alcuni anni rispetto alla città, e la distribuzione dei decessi si sposta lievemente verso età più avanzate: leggermente più persone muoiono fra i 40 e i 60 anni, un po’ meno nei primissimi anni di vita.


L’élite urbana romana


La curva per l’élite urbana romana è ancora diversa. Qui il picco iniziale resta alto – i neonati aristocratici non erano immuni da infezioni e complicazioni ostetriche – ma scende per effetto di una migliore alimentazione, di una maggiore possibilità di evitare lavori pesanti e di una maggiore capacità di far fronte alle malattie.

Dopo i cinque anni, le probabilità di sopravvivenza migliorano sensibilmente: nel grafico si vede come la quota di decessi nelle classi 15–30 anni sia più bassa rispetto al popolino urbano, mentre cresce la quota nelle età mature, soprattutto tra i 50 e i 70 anni.

In pratica, nella stessa città, un povero aveva molte più probabilità di morire giovane: in un vicolo affollato di Suburra si sarebbero visti soprattutto bambini e giovani adulti, con qualche anziano eccezionale, mentre in una domus sul Palatino la presenza di cinquantenni e sessantenni sarebbe stata relativamente più frequente.


L’Italia contemporanea


Il modello italiano contemporaneo inverte quasi completamente la forma della curva. Grazie a vaccinazioni, antibiotici, igiene, alimentazione e un sistema sanitario capillare, i decessi nelle classi 0–2 e 3–5 anni sono oggi frazioni minime del totale, nell’ordine di pochi decimi di punto percentuale secondo i dati ISTAT e OMS.

La linea rimane quasi aderente allo zero per tutta l’infanzia e la giovinezza, poi comincia a salire lentamente intorno ai 50 anni e cresce in modo rapido dopo i 70. La grande maggioranza dei decessi si concentra nell’ultima classe, 81 anni e oltre, che nel grafico svetta come un picco isolato.

Nella vita quotidiana questo significa che, guardandoci intorno oggi in un quartiere italiano, gli eventi di morte che toccano le reti familiari e sociali riguardano quasi sempre nonni e bisnonni; in età romana, al contrario, la morte di un bambino piccolo o di un trentenne non sarebbe stata affatto rara, e avrebbe scandito in modo diverso il ritmo delle vite.


Paesaggi sociali della mortalità


Le differenze fra città e campagne e fra classi sociali ridefinivano anche il paesaggio umano concreto. In una strada di Roma antica, la forte mortalità infantile e l’altissima fecondità (necessaria a compensare le perdite) facevano sì che i bambini fossero numerosissimi, ma pochi di loro arrivassero all’età adulta.

Le famiglie non avevano quasi mai quattro generazioni viventi insieme; spesso mancavano uno o entrambi i genitori, creando un gran numero di orfani e vedove, come sottolineano anche gli studi sull’età strutturale romana. Questo produceva una società in cui il matrimonio precoce, le nuove unioni e le reti parentali allargate erano la norma, e in cui la solidarietà intra-familiare era essenziale per la sopravvivenza materiale.

Nelle campagne, la curva un po’ più “piatta” e spostata verso destra suggerisce comunità leggermente più anziane, dove nonni e zii vivevano più spesso abbastanza a lungo da partecipare alla vita dei nipoti, ma dove la vulnerabilità alle crisi di sussistenza rendeva fragile questo equilibrio.

L’élite urbana, con la sua curva ancora più spostata verso età mature, sperimentava invece con maggior frequenza il problema dell’eredità complessa: più individui sopravvivevano fino a un’età in cui accumulare ricchezza e proprietà, e la legge romana doveva gestire una fitta trama di testamenti, adozioni adulte e strategie dinastiche.

Nell’Italia di oggi la concentrazione dei decessi in età anziana trasforma completamente le dinamiche sociali. Le famiglie hanno mediamente meno figli, ma li vedono quasi tutti crescere; al tempo stesso, una quota crescente di persone trascorre decenni in pensione, con problemi di sostenibilità dei sistemi previdenziali e sanitari che gli studiosi e gli organismi statistici sottolineano con crescente preoccupazione.

La convivenza simultanea di tre o quattro generazioni è diventata normale, con lunghi rapporti nonni-nipoti e perfino bisnonni-pronipoti; ma la base stretta della piramide demografica significa anche che ogni coorte di giovani deve “sostenere”, simbolicamente e fiscalmente, un numero sempre maggiore di anziani.


Quattro paesaggi di mortalità


Guardate quindi le curve del grafico come quattro diversi paesaggi di mortalità. Quella dei Romani urbani non-élite è una montagna altissima all’inizio della vita, seguita da una sequenza di colline irregolari che siestinguono relativamente presto.

Quella italiana contemporanea è una pianura lunghissima che improvvisamente si impenna solo alla fine. Dal punto di vista di chi viveva allora, l’esperienza della morte era molto più precoce, frequente e distribuita lungo tutto l’arco dell’esistenza; dal nostro, è concentrata nella vecchiaia, e ridefinisce l’intero equilibrio fra età lavorativa, formazione, cura dei figli e assistenza agli anziani.


Metodologia


Per rendere più trasparente l’articolo precedente è utile esplicitare quali metodi sono stati usati per costruire le curve e le tabelle, e su quali studi storici si basano le ipotesi sui Romani e sull’Italia contemporanea.

L’idea di fondo è quella della “tavola di mortalità”, lo strumento standard della demografia. Si immagina una coorte fittizia di 100.000 nati e, per ogni intervallo di età, si assegna una probabilità di morire prima di uscire da quell’intervallo. Da queste probabilità si ricavano il numero di sopravviventi all’inizio di ogni classe di età, il numero di decessi in ciascuna classe e la distribuzione complessiva delle età al decesso.

Nel nostro caso le età sono state raggruppate in classi triennali da 0–2 anni fino a un’ultima classe aperta “81 e più”. La scelta degli intervalli di tre anni è un compromesso: abbastanza stretti da cogliere le differenze fra infanzia, età adulta e vecchiaia, ma sufficientemente ampi da smussare le oscillazioni che si avrebbero con classi annuali, seguendola logica delle “tavole abridged” usate quando i dati non sono perfetti.

Per l’Italia contemporanea ci si è appoggiati direttamente alle tavole di mortalità ufficiali dell’ISTAT, che forniscono per ogni età la probabilità di morte annuale e la sopravvivenza della coorte fino a 100 anni e oltre. I valori originali, disponibili per singolo anno di età, sono stati aggregati in classi di tre anni, mantenendo una speranza di vita alla nascita complessiva attorno agli 80 anni e una concentrazione dei decessi alle età superiori ai 70–75 anni, coerente con i comunicati più recenti (circa 83–84 anni di vita media per il totale della popolazione).

La distribuzione percentuale dei decessi riportata nella tabella deriva semplicemente dal rapporto tra i decessi in ogni classe triennale e il totale dei decessi della coorte, moltiplicato per cento. Nel grafico le classi sono rappresentate dal loro punto centrale (1, 4, 7 anni, e così via).

Per il mondo romano la situazione è molto diversa, perché non esistono registri anagrafici completi. L’unico grande insieme di dati seriali è quello dei censimenti di età e stato civile dalla provincia d’Egitto, analizzati in maniera sistematica da Roger Bagnall e Bruce Frier. In The Demography of Roman Egypt gli autori costruiscono tavole di mortalità per uomini e donne basate su migliaia di dichiarazioni di età, mostrando che l’aspettativa di vita alla nascita si colloca verosimilmente fra i 22 e i 27 anni in una popolazione mediterranea antica “normale”.

Walter Scheidel, in Death on the Nile, riprende questi dati e li collega al quadro delle malattie endemiche e delleepidemie, rafforzando l’idea che un tale livello di mortalità sia plausibile anche al di fuori dell’Egitto, convariazioni locali fra grandi città e campagne.

Oltre ai censimenti egiziani, gli studiosi hanno utilizzato due altre grandi famiglie di fonti: le iscrizioni funerarie con l’età alla morte e i resti scheletrici delle necropoli. Saller e Shaw hanno mostrato come le epigrafi latine con l’indicazione dell’età offrano informazioni sia sull’età alla morte sia sulla struttura familiare, pur con forti distorsioni sociali (la maggior parte dei defunti commemorati appartiene agli strati più alfabetizzati e relativamente agiati).

Tim Parkin, nel suo Old Age in the Roman World, combina questi dati con i risultati delle tavole di mortalità per discutere che cosa potesse significare essere “vecchi” in una società dove i veri ottuagenari erano rari.

Proprio perché le fonti dirette sono frammentarie, sia Bagnall e Frier sia Scheidel eParkin fanno largo uso di “model life tables”: tavole modello come quelle di Coale e Demeny, costruite a partire da popolazioni preindustriali ben documentate e organizzate in famiglie di curve (“West”, “North”, “East”, “South”) che rappresentano diversi profili di mortalità.

L’approccio consiste nel trovare all’interno di queste famiglie il livello che meglio riproduce l’aspettativa di vita e la distribuzione per età suggerita dalle fonti antiche, e poi nel correggere il modello dove necessario.

Il lavoro qui presentato segue la stessa logica, ma in forma semplificata. Per la popolazione “urbana non-élite” dell’Impero romano si è scelto un profilo di mortalità che imita un modello Coale–Demeny “West” a bassa speranza di vita: probabilità altissime di morte nei primi anni (circa un terzo dei nati che muore fra 0 e 2 anni),una brusca caduta nell’infanzia avanzata e una risalita progressiva dalla trentina in poi.

I tassi triennali sono stati tarati in modo che la speranza di vita alla nascita della coorte fittizia si assestasse attorno ai 25–26 anni, in linea con le stime per l’Egitto romano e con le ricostruzioni generali per il Mediterraneo antico.

La popolazione rurale mantiene la stessa forma, ma con probabilità di morte leggermente inferiori nelle primissime classi dietà e una mortalità un po’ più spostata sulle età adulte, così da raggiungere una speranza di vita poco sopra i30 anni, coerente con l’idea di un “vantaggio rurale” rispetto alle grandi città malariche e sovraffollate enfatizzato da Scheidel.

Per l’élite urbana si è intervenuti non tanto sul livello globale della mortalità, quanto sul suo profilo per età. In base alle considerazioni di Saller, Parkin e altri sul maggior accesso a risorse materiali, alimentazione di qualità e possibilità di proteggersi da lavori usuranti, si è ipotizzata una mortalità infantile meno feroce rispetto ai ceti popolari, e soprattutto una mortalità più bassa nelle età centrali della vita.

I tassi triennali sono stati quindi abbassati fra i 5 e i 50 anni, lasciando quasi invariata la crescita della mortalità dopo i 60, con l’effetto di spostare una quota maggiore dei decessi nelle classi 50–70 e di portare la speranza di vita alla nascita su valori intorno ai 35–36 anni.

Si tratta di una differenza importante ma plausibile se si considera che, anche in società premoderne più vicine nel tempo, le élite urbane potevano guadagnare fino a una decina d’anni rispetto ai contadini più poveri.

Dal punto di vista tecnico, per ciascuno degli scenari sono state applicate le stesse operazioni. La coorte di 100.000 nati viene fatta “scorrere” lungo le classi di età; in ogni intervallo triennale si sottrae il numero di decessi atteso, pari ai sopravviventi all’inizio dell’intervallo moltiplicati per la probabilità di morte del gruppo.

I sopravviventi che restano entrano nell’intervallo successivo. Sommando le persone–anno vissute in ogni classe si ottiene il totale di anni di vita della coorte e, dividendo per 100.000, la speranza di vita alla nascita.

La distribuzione percentuale delle età al decesso, che compare nella tabella, si ottiene invece dividendo i decessi di ciascuna classe triennale per il totale dei decessi della coorte.

Le curve del grafico non sono quindi semplici linee teoriche, ma rappresentano il risultato interno di una tavola di mortalità coerente, anche se costruita sudati ipotetici per il mondo romano.

Un’ultima osservazione riguarda il modo in cui questi modelli si collegano alle conseguenze sociali discusse. Saller, attraverso simulazioni di genealogie romane, ha mostrato che in un regime con speranza di vita attorno ai 25 anni risulta normale che molti bambini perdano il padre prima dei vent’anni e che il numero di famiglie con quattro generazioni viventi simultaneamente sia minimo.

Parkin, utilizzando tavole simili a quelle qui schematizzate, ha stimato che solo una piccola percentuale della popolazione raggiungeva i 70 anni, interpretando di conseguenza le testimonianze letterarie e giuridiche sulla vecchiaia.

Per l’Italia odierna, invece, le tavole ISTAT mostrano che una quota molto elevata della coorte sopravvive fino a 75–80 anni, e i comunicati recenti sull’aumento dei centenari confermano che l’ultimo tratto della curva si è gonfiato a dismisura.

Si comprende così perché i grafici prodotti non siano un semplice esercizio stilizzato, ma una forma sintetica dimolta storiografia e demografia accumulata negli ultimi decenni: dalle analisi dei censimenti egiziani di Bagnalle Frier alle ricostruzioni di Scheidel sul ruolo delle malattie, dalle riflessioni di Parkin sulla vecchiaia all’uso delle tavole modello di Coale e Demeny.

Le curve che comparivano nell’articolo non sono quindi “vere” nel senso statistico stretto, ma sono verosimili rispetto a ciò che le fonti consentono di dire; ed è proprio questa verosimiglianza che permette di collegare la matematica delle tavole di mortalità alla domanda storica che interessa di più, cioè come cambiano, nel tempo lungo, i volti e le età delle persone che popolano lo spazio sociale.


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Un articolo di Silvio Caretto


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